Monongah: la tragedia dimenticata

di Giuseppe Marino


monongah

La storia dell’emigrazione italiana, soprattutto quella meridionale, è costellata da una serie spaventosa di sciagure che seminarono morti e lutto nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, trasformando le speranze e le aspirazioni ad una vita migliore di tanta povera gente, in dolore e disperazione. Mattmark, Marcinelle, Cherry, Monongah sono nomi tristemente famosi per essere stati teatro di veri e propri “massacri” di italiani e, lavoratori di altri paesi europei anch’essi sfruttati e costretti a lavorare in condizioni disumane e nella totale assenza di misure di sicurezza che potessero, in qualche modo, tutelare la loro incolumità. Era l’8 agosto del 1956 quando a Marcinelle, nel sobborgo operaio di Charleroi, in Belgio, un carrello impazzito, uscendo dai binari, tranciò alcuni cavi elettrici innescando una terribile esplosione nella miniera. I pozzi si trasformarono in una sorta di inferno nel quale persero la vita 262 operai. Di essi ben 136 erano italiani e, tra loro, moltissimi, meridionali. Il dramma di una delle tante famiglie che ne furono vittime fu cantato mirabilmente dal poeta Ignazio Butitta nella celebre poesia “Lu trenu di lu suli” che racconta la storia di Salvatore Scordu e della moglie Rosa che apprese la terribile notizia in treno, da una radiolina a transistors, proprio mentre, con la nidiata dei figlioletti era in viaggio per il Belgio per raggiungere il marito e cambiare, finalmente, tenore di vita. Il 30 agosto del 1965, a Mattmark, nel cantone vallese della Svizzera, una valanga, staccatasi da un ghiacciaio, travolse il cantiere della diga in costruzione provocando la morte di 88 persone delle quali 56 di nazionalità italiana. Anche questa volta il tributo di sangue dei meridionali fu altissimo. Ben sette lavoratori provenivano da San Giovanni in Fiore; il più anziano aveva 56 anni, il più giovane 20 anni. Una sciagura che, invece, fece vittime fra gli operai del centro nord, soprattutto dell’Emilia Romagna, fu quella del 13 novembre del 1909 che interessò la miniera di Cherry (Illinois). In quell’occasione i morti accertati furono 250, di cui 65 italiani. I morti emiliani furono ben 34.[1] Per cercare di trarre in salvo i minatori perirono anche 12 soccorritori. I superstiti furono solo 20. Uno di loro, giovanissimo, Bonfiglio Ruggeri, arrivato in America da poco tempo, rimase intrappolato nella miniera tra continui scoppi e incendi e impazzì per il terrore. Ma la sciagura più spaventosa, la più cruenta, la più grave nella storia mineraria degli Stati Uniti fu, senz’altro, la tragedia di Monongah, una cittadina del West Virginia, non solo per lo spaventevole numero dei morti accertati e per il fatto che fu l’unica che non registrò superstiti, ma anche perché, come si ritiene unanimemente, il numero effettivo delle vittime fu, certamente, di gran lunga superiore a quello che fu il bilancio ufficiale della sciagura. Ma Monongagh deve essere stata così atroce, così terrificante da essere perfino rimossa dalla coscienza e dal ricordo delle future generazioni. Erano le 5 e 20 del mattino del 6 dicembre del 1907. Dopo due giorni di festa, centinaia di minatori di diversi paesi europei, molti anche statunitensi, stavano scendendo nei pozzi. All’improvviso una terrificante esplosione fa crollare la miniera seppellendoli per sempre nelle viscere della terra. La probabile causa dell’immane tragedia fu l’eccessivo accumulo di gas che si verificò a causa dello spegnimento del sistema di aerazione, in occasione della festa di San Nicola, voluto dai proprietari per risparmiare. In quelle condizioni fu sufficiente una scintilla a scatenare l’inferno. Il bilancio ufficiale parlo di 361 vittime, delle quali 171 italiani, 83 americani, 105 tra russi e polacchi, altre fonti parlarono di ben 960 morti di cui almeno 500 italiani. Lo scostamento tra le due cifre deriva dal fatto che, in realtà, non fu mai possibile accertare con precisione il numero dei minatori al lavoro in quel momento. Nel cantiere, infatti, vigeva il “buddy sistem”, ovvero il “sistema del compagno, dell’amicone”. I lavoratori, infatti, si organizzavano autonomamente in squadre portandosi dietro amici o compagni che li aiutavano ad estrarre quanto più carbone possibile. Più carbone riuscivano ad estrarre, più ricevevano buoni da spendere nei negozi degli stessi proprietari della miniera dove acquistavano tutto ciò che poteva loro servire. In queste condizioni, perciò, è molto probabile che, quella mattina, in quei maledetti pozzi, ci fossero molti più lavoratori di quanti poté accertare l’inchiesta ufficiale. Per cercare di ricostruire con accettabile correttezza l’esatto numero dei caduti furono fatte perfino accurate ricerche nei cimiteri. La miniera nella quale si verificò la spaventosa catastrofe era di proprietà della Fairmont Coal Company, sussidiaria della Consolidation Coal Company. La tragedia colpì soprattutto, l’Abruzzo, il Molise e la Calabria; 31 minatori provenivano da Duronia del Sannio, un paesino in provincia di Campobasso; moti altri erano originari di Fossalto (CB), Frosolone (IS), Pietracatella (CB), Civitella Roveto (AQ). I calabresi erano in maggioranza originari di San Giovanni in Fiore, ma ce n’erano anche di Castrovillari, Gioiosa Ionica, Falerna, Guardia Piemontese, Morano Calabro, San Nicola dell’Alto, Strongoli. I sangiovannesi, secondo l’inchiesta ufficiale, furono 21 (almeno questo è il numero che si desume con certezza dall’elenco dei familiari risarciti), ma alcuni cognomi di cittadini italo americani le cui famiglie risultarono residenti a Monongah, senz’ altra specificazione, fanno pensare ad altri possibili emigrati della cittadina florense.[2] Anche Caccuri ebbe i suoi morti, sebbene l’inchiesta ufficiale ne individuò uno solo: Francesco Loria, nato a Caccuri il 23 febbraio del 1886 da Saverio e da Caterina Marino. Il giovane, giunto in America all’età di 19 anni, il 29 settembre del 1905, a bordo della nave Madonna, carico di speranze, perse la vita, in modo atroce, l’anno dopo, a soli 20 anni. Il padre fu risarcito con 200 dollari. San Nicola dell’Alto ebbe due caduti, probabilmente due fratelli. Entrambi sposati con figli, le loro vedove ricevettero rispettivamente 548 e 722 dollari a risarcimento della grave perdita subita. Un morto lo ebbe anche Strongoli, un certo Francesco Todaro la cui moglie fu anch’essa risarcita con 200 dollari. Il compito di individuare i superstiti delle vittime nei loro paesi d’orine e di istituire un fondo per risarcirle in qualche modo, fu affidato a un comitato di 24 persone eletto dal Monongah Mines Relief Committee. Di esso facevano parte anche due prestigiosi italo americani: il reverendo Joseph D’Andrea, parroco della chiesa cattolica di Monongah e il signor Filippo Pellegrini, originario di Atessa (CH). Filippo Pellegrini era una persona molto stimata dalla popolazione di Monongah dove gestiva un negozio di generi alimentari e morì, tragicamente, nel 1917, quando fu investito da un’automobile. [3]Il reverendo D’Andrea fu colpito in prima persona dalla sciagura nella quale perse il fratello Vittorio. Toccò a lui il mesto compito di celebrare i funerali dei poveri minatori. Il comitato non si limitò a identificare i morti e rintracciare i loro familiari, ma lanciò un appello, attraverso i giornali e la radio, in tutti gli Stati Uniti per raccogliere fondi. Molti soldi giunsero così da tutti gli Stati Uniti, ma anche dall’Europa per cui furono raccolti 154.360, 10 dollari. Molti di questi dollari furono anche il frutto della donazione di tanti emigrati italiani e di altri paesi. Per correttezza di informazione va detto che la Fairmont Coal Company contributi per 20.000 dollari. Il criterio adottato fu quello di risarcire ogni vedova o, nel caso il morto fosse celibe, i genitori con 200 dollari (circa 3245 euro), ai quali venivano aggiunti altri 174 dollari (2823 euro)[4] per ogni orfano. Di undici vittime non si riuscì ad identificare la famiglia di origine, altri tredici, tra i quali due italiani, risultarono senza persone a carico da risarcire. Scorrendo le pagine del volume presso la Biblioteca di Morgantown si notano alcune incongruenze di cui non si riesce a venire a capo, come la presenza, nell’elenco delle vittime, di due lavoratori, Giovanni e Francesco Iaconis, probabilmente parenti, riportati erroneamente come “Yacones” i cui nominativi compaiono solo nell’elenco delle vittime, ma non in quello delle famiglie risarcite. Il cognome potrebbe essere riferito a minatori originari di San Giovanni in Fiore, ma anche di Caccuri, dal momento che all’inizio del secolo scorso, in quest’ultima cittadina vi erano parecchie famiglie con questo cognome, anche se va riferito, per correttezza di informazione, che chi si è già occupato (e anche autorevolmente) della sciagura ha classificato i due Iaconis come cittadini di San Giovanni in Fiore. Potrebbero anche essere caccuresi emigrati dapprima a San Giovanni in Fiore e, da lì, in America. Probabilmente i solerti membri del comitato, nel loro difficile lavoro, non riuscirono a rintracciare alcun parente delle due vittime che, ovviamente, non poterono essere risarciti e quindi compresi nei relativi elenchi. La sciagura di Monongah, come abbiamo già osservato, non fu soltanto la più grave nella storia mineraria degli Stati Uniti, ma sicuramente anche la più dimenticata. Per moltissimo tempo, infatti, nessuno ne parlò, anche se nella coscienza popolare e nella memoria delle popolazioni colpite rimasero cupi, ancestrali timori. “Te piensi a vaju a Mironga?”, ripetevano i vecchi sangiovannesi quando volevano rassicurare l’interlocutore sul fatto che si sarebbero rifatti vivi, che non sarebbero andati in un posto dal quale non si fa ritorno. L’esistenza di questo modo di dire che testimonia l’orrore e il terrore suscitato da questo grave disastro, fu confermata da Domenico Porpiglia, il bravo giornalista del periodico “Gente d’Italia” al quale va il merito di avere per primo, con tenacia e intelligenza, riportato alla luce l’immane tragedia frettolosamente insabbiata, probabilmente, per nascondere le gravi responsabilità della Fairmont Coal Company. [5]E la paura dei nostri connazionali dovette essere davvero tanta, se è vero, come è vero, che nel 1908 si assistette ad una drastica riduzione del numero degli immigrati italiani.[6]Lo del West Virginia continuò, comunque, ad essere meta di tantissimi nostri corregionali e compaesani. Dopo un periodo di contrazione, infatti, l’emigrazione per Fairmoint, e Clarksburg riprese alla grande. Gli stessi nonni paterno e materno di chi scrive lavorarono, fortunatamente senza incappare in alcun incidente, per molti anni, nel fondo di una miniera di Clarksburg, prima di tornarsene a Caccuri con una manciata di dollari risparmiati a prezzo di immani sacrifici.


[1] Monica Bertugli: Tesi di laurea “L’emigrazione delle comunità montane dell’appennino modenese ovest, dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra”, Università degli Studi di Reggio Emilia, anno acc. 2001/02, www.lunanuova.it/ValDragone/Valdragonenellastoria/Emigrazione.

[2]History of te Monongah Mines Rilief Fund, in Aid of Sufferers from the Monongah Mine Explosion, Monongah, West Virginia, Decembere 6, 1907 – Morgantown Public Library. Pp. 28-39.

[3]Devo queste notizie alla signora Donna Pellegrin, cittadina americana di origini caccuresi, ingegnere meccanico e ricercatrice, che le ha ricavate dall’esame di alcuni documenti dell’archivio parrocchiale di Monongah e da articoli di stampa dell’epoca.

[4]Il valore è stato calcolato col metodo Consumer Price index.

[5]Manuela Correra, Gazzetta del Sud – mercoledì 12 novembre 2003.

[6]The 1907 Monongah mine disaster temporarily slowed Italian immigration to the region, pag. 109.

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