L’utopia monastica di Gioacchino da Fiore

di Vittorio Emanuele Esposito


(Celico 1135- Pietrafitta 1202)

Conosciamo Gioacchino da Fiore attraverso i versi del canto XII del Paradiso dantesco che lo hanno reso immortale. Nel Cielo del Sole Dante e Beatrice incontrano l’anima di San Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’ordine francescano, che nella corona degli spiriti sapienti indica loro quella di Gioacchino: «…e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato». In realtà Dante non fece altro che trasporre nella misura musicale del suo endecasillabo la giaculatoria che i monaci florensi recitavano sul sepolcro del loro abate: «Beatus Ioachim spiritu dotatus prophetico». Riconosceva, al tempo stesso, di essere stato ‘illuminato’ dal monaco calabrese, i cui scritti conosceva senza ombra di dubbio, come attestano le molteplici figurazioni simboliche di origine gioachimita cui egli attinge per dar voce e sostanza alla sua “poesia dell’ineffabile”[1]. Ma chi era Gioacchino da Fiore[2], questo ‘profeta’ calabrese che Dante non esitò ad inserire tra gli spiriti sapienti del ‘Paradiso’, nonostante le sue idee fossero in odore di eresia e una sua operetta sulla Trinità[3] fosse stata solennemente condannata e posta all’indice da Innocenzo III nel Concilio lateranense del 1215? Era un monaco, un uomo di fede, che riassumeva in sé le tendenze anacoretiche e contemplative del monachesimo basiliano[4], l’operosità dei benedettini, l’austerità dei cistercensi, al cui ordine appartenne, e che, fondando, sulla base di una Regola ancor più rigorosa e severa, il nuovo Ordine Florense (1196) volle fornire il modello di una comunità di eletti, viventi nella purezza e nella pienezza dello Spirito. Non fu un teologo speculativo, ma neanche un mistico , almeno sul piano dottrinale. Rifiutava, infatti, il razionalismo degli scolastici, come Abelardo e Pietro Lombardo, ma credeva in un logos divino accessibile all’uomo che se ne fosse portato all’altezza. La sapienza di Gioacchino consisteva, appunto, esclusivamente nella conoscenza e nell’interpretazione – a dire il vero, assai libera e soggettiva - della Bibbia e dei Padri della Chiesa, a cui si dedicò per l’intera vita. Tutta la verità che l’uomo può attingere derivava per lui dall’ intelligenza spirituale delle Sacre Scritture, in cui il disegno della creazione si era compiutamente manifestato nella sua logica e nei suoi effetti. Questo era anche il segreto del suo ‘profetismo’, che non aveva, in realtà, altro fondamento se non l’impegno costante e meticoloso di decifrazione del messaggio divino soggiacente alla storia delle “tribolazioni” del popolo ebraico e della Chiesa cristiana: un dramma che nella Bibbia era rappresentato dal principio alla fine, dalla Genesi fino all’ultimo. libro, l’Apocalisse di Giovanni. La Bibbia era, idealmente, per Gioacchino, un unico volume – scritto sul davanti (significato letterale) e sul retro (significato simbolico).-che si srotola e si snoda in una serie di narrazioni e di allocuzioni, contrassegnate da altrettanti sigilli[5], che svelano al lettore ispirato il Piano progressivo della salvezza. Studiando la Bibbia e leggendola con il suo personale metodo ermeneutico, che gli consentiva di scoprire corrispondenze e concordanze, spesso improbabili[6], grazie all’alternanza di vari registri interpretativi ( storico, morale, tropologico, contemplativo , anagogico, tipico - quest’ultimo suddiviso in sette specie) e applicando alla storia ‘che corre nel tempo’ la processione ideale del dogma trinitario (dal Padre al Figlio, dal Figlio allo Spirito Santo), Gioacchino approdò all’annuncio di una nuova epoca, l’età dello Spirito, che, secondo i suoi calcoli, per la verità alquanto artificiosi[7], avrebbe dovuto aver inizio nel 1260. Era il risveglio, due secoli dopo, della credenza millenaristica nella prossima fine del mondo, in conseguenza delle lotte e dei conflitti che ciclicamente si rinnovano sulla terra per la irrimediabile presenza del male, ma preceduta, questa volta, da un periodo di decantazione e di preparazione. La visione di Gioacchino non era, infatti, meno pessimistica di quella di S.Paolo e di S. Agostino. Il sacrificio di Cristo aveva aperto all’umanità la prospettiva della libertà e dell’amore, ma ciò non era bastato a vincere la superbia, la sete di dominio e la corruzione diffusi tra i popoli della terra e largamente presenti anche all’interno della Chiesa e degli ordini religiosi. La sua profezia dell’ età dello Spirito non prefigurava, perciò, una situazione di compiuto e definitivo riscatto, ma solo una pausa, un periodo sabbatico, una parentesi di quiete e di riposo (refrigerium sanctorum), prima della ripresa dei flagelli, delle tribolazioni, dei cataclismi che preludeva alla fine della storia. Questa fine, e l’inizio del Giudizio Universale, venivano semplicemente differiti al termine di un intervallo temporale più o meno breve o esteso: mille anni secondo la generica indicazione dell’ Apocalisse dell’apostolo Giovanni; un periodo, comunque, determinato, finito. *** L’elemento nuovo introdotto da Gioacchino nell’esegesi biblica sta nell’aver valorizzato un passo dell’ Apocalisse di S. Giovanni (Ap.20) generalmente trascurato ed evidenziato solo da alcuni esegeti, come S. Girolamo o Beda il Venerabile. Nel libro dell’Apocalisse [8], l’Apostolo Giovanni rende nota la visione estatica che ebbe mentre era esule nell’isola di Patmos e, dopo aver esposto il contenuto delle lettere che avrebbe inviato, per ammonirle, alle Sette Chiese orientali di sua competenza, comunica, nei terrificanti dettagli, la ‘rivelazione’ (apocalisse) ricevuta circa l’approssimarsi del tempo ‘ultimo’ (éskhaton). Dopo la fine di Babilonia (= Roma), la “grande meretrice”, e la sconfitta dell’Anticristo, Satana, responsabile dei vari flagelli che si abbattono sull’umanità e suscitatore dei mostri che la insidiano e la tormentano, viene, tuttavia, incatenato e gettato nell’Abisso, dove rimarrà per mille anni. Possono, allora, finalmente aver luogo le nozze mistiche tra l’Agnello divino e la Chiesa, sua sposa. Coloro che avranno testimoniato la parola divina, gli eletti, parteciperanno come “sacerdoti di Cristo” a questo provvisorio regno di Dio sulla terra, prendendo parte ad una “prima resurrezione”, da cui, invece, saranno esclusi coloro che, sedotti dalla “Bestia” satanica dalle sette teste, si soni posti al suo servizio. Al termine dei mille anni Satana verrà liberato e scatenerà nuovi flagelli e cataclismi, che avranno termine con Il Giudizio divino e l’avvento della Gerusalemme celeste. Gioacchino, dunque, riprendeva, amplificandola, la profezia di Giovanni e, spinto, insieme, dal gusto medioevale per le simmetrie e dalla ricerca di una via di superamento degli aspri conflitti politico-religiosi del suo tempo, credette di riconoscere, in quella pausa di pace e di ristoro della durata di mille anni, di cui si fa cenno nel suddetto passo dell’Apocalisse, la terza età della storia, l’età dello Spirito: l’età, cioè, della rinuncia alla concupiscenza, alla ricchezza e alla gloria mondana, del superamento della carnalità, della vita contemplativa come forma di perfezione spirituale. Poteva così compiersi l’epifania di Dio, uno e trino, nella storia del mondo. Se, infatti, l’Antico Testamento documentava l’età del Padre (epoca dell’obbedienza alla legge, dettata da Dio a Mosé, e del timore) e se il nuovo Testamento inaugurava l’età del Figlio (epoca della grazia e della libertà ), quel passo, quasi incidentale, dell’ Apocalisse giovannea permetteva di dare consistenza storica ed epocale anche allo Spirito Santo (epoca della pace, della giustizia e dell’amore), alla cui discesa sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste non erano seguiti gli effetti sperati sull’umanità e sulla stessa Chiesa, attraversata per secoli da contrasti e da scismi – come quello del 1050 tra Chiesa greca e Chiesa latina- , da conflitti di potere, da contese tra Papi e Imperatori e tra Papi e Anti-Papi, da vizi capitali - come simonia e nicolaismo-, da devianti aspirazioni alla mondanità, alla ricchezza, al lusso. Sul fondamento di questa teologia storica della tre età o dei tre Stati, Gioacchino poté, dunque, costruire la sua utopia monastica di una Città Celeste, con al vertice l’ordine dei contemplativi (monaci spirituali), cui si sarebbero assimilati gli ordini “corporali”, che nella precedente età del Figlio avevano guidato la Chiesa, negli stadi in cui gli interessi e le passioni della ‘vita attiva’, ancora dominanti nel mondo, rendevano necessari la predicazione e l’istruzione dei fedeli (pastori, diaconi, dottori, “vergini[9], chierici). Infatti, quando tutti avranno rinunciato all’azione e conosciuto la verità “vorranno assaporare soltanto le cose divine, non per cercare di sapere che cosa sono, ma per poter prendere possesso di ciò che già conosceranno mediante l’infusione dello Spirito”[10] Nella planimetria ideale disegnata da Gioacchino – che dichiara di averla ‘vista’ “con gli occhi del (suo) cuore”- la Città Celeste è posta entro un quadrato con un’ uscita per ogni lato che conduce agli insediamenti dei diversi ordini sociali ciascuno rappresentato da un simbolo (leone, vitello, uomo, aquila) In particolare se la Chiesa in blocco è simboleggiata dalla Colomba, è l’Aquila che rappresenta i contemplativi. Quanto ai laici, essi si dividono in due classi, i “singoli continenti” e i “coniugati”, ed occupano una posizione marginale.: entro la Città, perché convertiti anch’essi ad una vita ascetica e contemplativa, ma i primi risiederanno nei sobborghi e gli altri nei quartieri limitrofi. Grazie a questo ordinamento e alla rinuncia di tutti alla concupiscenza, alla ricchezza e al potere, la Città di Dio sulla terra, nel suo breve interregno,“avrà pace e un sabato che durerà fino alla liberazione di Satana”[11]. Questa è l’idea nuova introdotta da Gioacchino rispetto alla concezione di S. Agostino, per il quale la “Città di Dio” è immanente nella Chiesa, ma latente nel mondo, dove vive mischiata al male e al peccato, e avrà piena realizzazione solo nell’al di là, quando il divenire avrà termine e il “sabato infinito” subentrerà alle sei epoche terrene, riscattando i giusti dalle pene dell’esistenza. Al contrario, Gioacchino, fedele per il resto alla visione agostiniana della storia, vede nella Città di Dio una realtà prossima, effettiva, concreta; un’anticipazione e un simulacro della “Gerusalemme celeste”, che, sotto l’egida dello Spirito Santo, sarebbe sorta di lì a poco (“il tempo è vicino”), con il passaggio generalizzato dalla vita attiva alla vita contemplativa. con la conversione dei popoli- primi fra tutti gli Ebrei- con il superamento di ogni cupidigia di potere, di ricchezza e di gloria e con la conseguente affermazione della pace, della giustizia e dell’amore nel mondo. *** Il pensiero futuristico esercita sempre una suggestione sulle menti, che si traduce in ammirazione ed adesione se è ispirato dal bisogno di universale riscatto e liberazione dai mali, dai sensi di colpa e da tutte le forme di privazione e di oppressione, materiale e spirituale, che pesano sull’esistenza degli individui. Gioacchino annunciava, con la certezza e l’autorità dell’uomo di Dio, interprete della sua parola, un’era di rinnovamento radicale, in cui l’eguaglianza basata sull’umiltà avrebbe prevalso sulla superbia predominante. Il pensiero dell’età dello Spirito e l’utopia di una Città di Dio terrestre prospettavano un mondo capovolto, in cui “il maggiore servirà il minore” e gli umili saranno eletti da Dio, così come Giacobbe fu preferito al primogenito Esaù (Lettera di S.Paolo ai Romani)[12]. Si comprende come le idee rivoluzionarie di Gioacchino - pur enunciate con scrupolo di fedeltà alla Chiesa romana - la “Città del sole” del profeta Isaia, “madre e punto di collegamento fra tutte le Chiese”[13]- trovassero un terreno fertile in un contesto storico, già preparato dalla fioritura dei movimenti ereticali -i Patarini, i Catari, gli Arnaldisti- che univano alla pratica e alla predicazione della povertà il rifiuto di una Chiesa deviata rispetto alla purezza dei tempi evangelici. Gioacchino condivideva queste istanze critiche, ma condannava le eresie per la loro eterodossia dogmatica e per la ribellione e secessione dall’istituzione ecclesiastica in quanto tale. La società dello Spirito si sarebbe per lui attuata spontaneamente, secondo il piano cosmico tracciato nella Bibbia,, per volontà di Dio e non per volontà degli uomini. La povertà avrebbe perso il suo valore di estrema antitesi alla cupidigia in una situazione in cui lo slancio di elevazione sarebbe diventato assolutamente predominante con la conseguente indifferenza verso i beni terreni e la Chiesa, totalizzandosi nell’unità dei credenti interiormente convertiti e trasformati dallo Spirito in “sacerdoti di Cristo”, avrebbe dismesso i connotati istituzionali di guida e di controllo delle anime. La norma interiore, infatti, discendendo dal rapporto intimo instaurato da ogni singolo con Dio, che la desoggettivizza e la universalizza, avrebbe sostituito ogni estrinseca normatività. Dopo la morte di Gioacchino queste idee vennero riprese dall’ala più radicale del movimento francescano[14] e il messaggio divino, estratto dalla Bibbia e reso esplicito attraverso una lettura che riprendeva e in parte innovava la tradizione apocalittica, fu riassunto e codificato in un Vangelo Eterno da Gerardo da Borgo San Donnino in uno scritto introduttivo alle opere dell’abate florense. Al di là dei veri proponimenti del loro autore, tale Vangelo avrebbe dovuto aggiungersi e sostituire i quattro Vangeli canonici. Lo scritto di Gerardo fu, però, giudicato come eretico e ‘fatuo’ da una commissione di tre cardinali nel cosiddetto “Protocollo di Anagni” (1255) e successivamente distrutto, *** La teoria dei “tre Stati” viene spesso celebrata come una concezione ‘moderna’ della storia, la cui esclusiva paternità è da ascriversi a Gioacchino, che avrebbe influenzato molti pensatori e grandi filosofi dei secoli successivi , come Vico, Hegel, Marx fino, potremmo aggiungere, allo stesso Heidegger, a riprova della profondità e della viva attualità del suo pensiero, riproposto, oggi, come antidoto al “nichilismo” contemporaneo. In realtà lo schema e il ritmo ternario erano già stati introdotti dagli antichi per distinguere le età del mondo (aurea, argentea e bronzea) e applicati da Platone e Aristotele alla successione ciclica delle forme di governo ( teoria dell’anakýklōsis). Gioacchino estese questo schema al divenire complessivo e compiuto della storia umana, invertendone l’ordine e inaugurando una nuova concezione del tempo: né ciclico – come il tempo degli astri, che periodicamente tornano al punto di origine- né semplicemente lineare, ma ritornante su se stesso, come una spirale, e procedente in avanti, pieno, in ogni istante, della memoria dell’intero processo, quale è delineato e anticipato nel logos divino e reso manifesto all’umanità dalla Scrittura. In questa visione religiosa del tempo e della storia la fine dell’esistenza perde il significato distruttivo di totale annientamento e acquista il valore di un fine, che dà senso al presente e alimenta la speranza nel futuro. A torto, dunque, secondo Andrea Tagliapietra[15], Gioacchino è stato considerato una figura marginale nella storia delle idee e della filosofia (che altro non è se non l’analisi critica delle idee nate dalla riflessione degli uomini sulla realtà e su se stessi). In effetti la concezione di Gioacchino non può essere giudicata meno ‘filosofica’ soltanto perché egli rifiutò le speculazioni astratte e i raziocini allora di moda, in seguito all’ingresso massiccio dell’aristotelismo nelle scuole e nelle università, e seguì, invece, una strada diversa, più tradizionale, di accesso alla verità. Il giudizio di S. Tommaso, che gli rimproverò la mancanza di una solida formazione ‘scolastica’, è, in realtà la spia di un contrasto tra due diverse forme di teologia, tra due filosofie, tra due metafisiche. La presunta antitesi tra ragione e fede, infatti, a ben guardare, si rivela come la contrapposizione tra due forme codificate di razionalità, diverse per fonti di riferimento, categorie, tipi di argomentazioni e nascono entrambe dal bisogno dell’uomo di dare stabilità, consistenza e valore alla sua contingente presenza nel mondo. Né, per l’altro verso, Gioacchino può essere considerato più ‘moderno’ dei filosofi scolastici solo perché il suo pensiero è svincolato dall’armatura concettuale aristotelico-tomistica, con cui la ‘ragione’ si è per molto tempo identificata. Infatti a questa struttura logico-linguistica che opera come un filtro deformante sulla conoscenza diretta del mondo, egli contrapponeva un “reticolo simbolico”[16] derivato dalla propria interpretazione della Bibbia, non meno pesante ed esclusivo, entro il quale il divenire storico veniva rigidamente costretto, come in una intelaiatura ‘iconica’ altrettanto assoluta di quella ‘logica’. Cosicché l’ “apertura” verso un futuro nuovo e diverso rispetto al passato si riduceva all’aspettativa di una realtà già tutta determinata nelle sue linee essenziali. Il ‘sogno’ di Gioacchino non oltrepassava, di fatto, il recinto del monastero e l’avvento della nuova società, nell’era dello Spirito, veniva da lui configurato come l’edificazione di un “vasto cenobio”, includente chierici e laici, in cui l’ordine monastico – dopo la prevalenza storica di quello dei coniugati e di quello dei sacerdoti- avrebbe svolto la funzione principale, come esempio di ascetismo estremo e di perfetta spiritualità per tutti gli altri. Se è forse ingeneroso parlare di un’ “angusta filosofia della storia, fatta in servigio di un ordine monastico”, come giudicò Felice Tocco[17], che, peraltro. si affrettò ad attenuare subito dopo questa drastica valutazione, non è comunque una visione che può trascendere i limiti storici della cultura medioevale e il circoscritto orizzonte ideale di Gioacchino, neanche con l’espediente di decontestualizzarla, spogliandola dei suoi contenuti più pregnanti. Si tratta in ogni caso di una “filosofia della storia”, cioè di un mito filosofico o teologico, di natura estetica o poetica, che può esercitare ancora suggestioni e alimentare nostalgie solo tenendo presente la situazione di crisi del pensiero contemporaneo. *** C’è però un aspetto dell’esperienza intellettuale di Gioacchino - il cui interesse dal punto di vista storico e umano va oltre il problema dell’”attualità” del suo pensiero- che merita di essere considerato per trarne degli insegnamenti ed è quello che riguarda il suo cosiddetto “pensiero figurale”. Tutti i suoi scritti sono ricchi di simboli, metafore e similitudini, che suggeriscono immagini mentali, molte delle quali trovano riscontro nelle complesse composizioni grafico-pittoriche riunite nel Liber figurarum. Non ci si sbaglia affermando che egli possedeva una fervida ed esuberante fantasia, che si metteva in moto durante i lunghi silenzi della riflessione e della meditazione. Ma si può parlare di una specifica modalità di pensiero al suo riguardo? Tutti pensiamo per immagini e il pensiero verbale è sempre preceduto e accompagnato da immagini, che sarebbero bastevoli al bisogno se non vi fosse la necessità di riassumere l’esperienza per memorizzarla e per comunicarla ad altri. Quando parliamo o scriviamo, invece, pensiamo per concetti, essendo le parole segni di quei simboli astratti e riassuntivi di immagini o di operazioni sulle immagini che sono i concetti e i ragionamenti. Tuttavia, Il livello di astrazione può essere, talora, così alto da rendere incomprensibile e irrappresentabile l’idea che si intende trasmettere. Allora bisogna ricorrere a perifrasi, ad esempi, a paragoni, oppure cercare il supporto di mezzi di comunicazione diversi e più immediati. Questi sono i limiti del linguaggio verbale di cui Gioacchino era pienamente consapevole. Nell’affrontare il commento dell’ Apocalisse egli con umiltà esprimeva il suo dubbio di non riuscire a presentare con un linguaggio elegante ed efficace il contenuto del libro in tutta la sua grande ricchezza di significati. E, quasi scusandosi con i suoi lettori, avvertiva: “Parlerò, quindi, come potrò, nel caso contrario indicherò con dei cenni. E se non posso imitare gli uomini, imiterò l’animale senza intelligenza, o altrimenti l’uomo privo di parola, che a cenni va indicando ciò che ha visto E’ evidente che Gioacchino prendeva le distanze da quel parlare/ragionare per logiche deduzioni e rigorose dimostrazioni, su cui si fondavano il successo e la fama di Pietro Abelardo, ritenendolo inadatto nel trattare una materia sacra che aveva al suo centro la Rivelazione divina e che richiedeva non già l’esercizio della fredda ragione, ma quello dell’intelligenza intuitiva che ha le sue radici nel cuore e sa penetrare il senso riposto dei fatti e dei messaggi contenuti nel Testo ispirato da Dio. Anche quando affrontò questioni teoriche, come quelle della Trinità o della Grazia, egli, piuttosto che argomentazioni razionali, preferì esibire immagini che chiarissero con evidenza i concetti. Contro Pietro Lombardo, che aveva distinto l’essenza unitaria di Dio dalle tre persone, si limitò ad osservare che così si otteneva una ‘quaternità’ al posto della Trinità e, a supporto della propria tesi, fornì delle ‘immagini’ che servissero a rendere accessibile il dogma trinitario più di qualsiasi ragionamento formale. Quella, ad esempio, del sole e dei suoi raggi o quella del fuoco solare, del calore e della luce, dai quali il sole non si distingue come una quarta cosa. Ma, soprattutto, l’immagine, del salterio a dieci corde, che si affacciò alla sua mente nel giorno della Pentecoste, come un’ improvvisa illuminazione. Il salterio, infatti, è uno strumento dalla cassa triangolare; la cassa è unica, ma può essere osservata da tre prospettive diverse quanti sono i suoi spigoli. Tale metodologia comunicativa, che risponde ad un chiaro intento pedagogico, trovò massima espressione nelle tavole riunite nel Liber figurarum[18] : gli “alberi delle storie”, veri e propri diagrammi della successione di epoche, generazioni, popoli; i cerchi di tre colori con il tetragramma biblico (IEUE) adattato per indicare la Trinità divina e le sue manifestazioni storiche; il “carro di Ezechiele” che trasporta il trono divino, con le ruote dei due Testamenti che girano all’unisono e le quattro ruote simboleggianti umiltà, pazienza, fede, speranza; la serpentina, che nei diversi momenti della liturgia annuale riassume l’intera storia della salvezza; la mappa della Città Celeste, ecc. In questa straordinaria opera Gioacchino diede prova del suo grande talento creativo e insieme di come le figure, ideate e costruite come sussidio e “cenno” sensibile, integrativo e illustrativo del pensiero espresso in parole, possano risolvere i più ardui problemi comunicativi. Le “figure” non sostituiscono il pensiero verbale, discorsivo; lo supportano e lo integrano quando le parole mancano o sono insufficienti a produrre una chiara visione del contenuto da trasmettere. Conoscere è, infatti, soprattutto vedere (con l’occhio mentale e, come nota Gioacchino, con “l’occhio del cuore”) e la rappresentazione grafico-pittorica, materializzando le astrazioni, facilita la comprensione e l’apprendimento. Una lezione che non sfuggì a Tommaso Campanella. Le mura dei sette gironi che circondano la sua Città del Sole sono, infatti, istoriate con figure che traducono sul piano sensibile le nozioni di tutte le scienze. Cosicché i fanciulli, camminando in quattro schiere sotto la guida di quattro anziani, acquisiscono il sapere più che dalle parole dei maestri dalla intuizione diretta delle cose e delle loro relazioni.

(Celico 1135- Pietrafitta 1202)


[1] Cfr.: G.R.Succurro, Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, in Quaderni dell’Upmed n.4. Publigraphic, Cotronei 2020, p.146 ss. Basta pensare ai tre cerchi concentrici, «di tre colori e d’una contenenza», con cui viene reso sensibile il mistero della Trinità divina ( Parad., canto XXXIII), alla candida rosa, all’aquila ingigliata, alla lettera “I” con cui viene indicato il Padre che si rivela ad Adamo (canto XXVI), all’immagine dei due arcobaleni che si riflettono l’un l’altro (i “due archi paralelli e concolori” del canto XII, i cerchi divini che “l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso”) per dedurre che Dante ebbe sottomano il Liber figurarum o il manuale sull’Apocalisse o altre opere di Gioacchino.

[2] Nacque a Celico (Cs), nel 1135, da una famiglia altolocata (il padre era notaio) forse di origine ebraica, come attestano il suo nome -Joachim- e il battesimo ricevuto soltanto a sette anni. Il suo profetismo, basato sulla lettura simbolica della Bibbia, ha un significativo riscontro con quello del filosofo ebreo spagnolo, a lui contemporaneo, Mosè Maimonide, che si dedicò all’interpretazione allegorica del Talmud. Dopo aver lavorato, come funzionario e come notaio, presso il Giustizierato cosentino e in seguito presso la Cancelleria normanna di Palermo, compì un viaggio in Terrasanta, durante il quale scoprì la sua vocazione-di predicatore del verbo divino. Tornato in Calabria, su questa primitiva disposizione, prevalse la sua attitudine contemplativa, che lo induceva ad isolarsi per approfondire le Sacre Scritture, ricercando in esse elementi di novità, per un intimo bisogno di elevazione. Si fece monaco, entrando nel monastero di Corazzo, di cui divenne abate; ma appena poteva cercava di evadere per dedicarsi allo studio e alla meditazione. Fu ospite dell’abbazia di Casamari (dove concepì le sue opere maggiori) poi a Fossanova e a Pietralata, (presso Rogliano), rinunciando, infine, alla sua carica di abate di Corazzo per fondare, in Sila, un monastero che doveva essere il “fiore” di una rinnovata spiritualità (1190). Sei anni più tardi il Papa Celestino III approvò la nascita dell’ “Ordine florense”, come ramo del monachesimo cistercense. Gioacchino ebbe rapporti con Papi e massime autorità politiche del suo tempo, su cui esercitò la sua influenza (Lucio III, Urbano VIII, Guglielmo II, Tancredi, Riccardo Cuor di Leone, Costanza di Altavilla, Enrico VI). Morì nel 1202 a San Martino del Canale presso Pietrafitta (Cs)- La sua salma fu traslata nella nuova Chiesa abbaziale di S. Giovanni in Fiore. Le opere principali di G. sono: 1) Concordia Novi ac Veteris Testamenti 2) Enchiridion super Apocalipsim 3) Psalterium decem chordarum.

[3]De unitate seu essentia Trinitatis, andata perduta.

[4] Secondo Felice Tocco (L'eresia nel Medioevo. Tiemme Edizioni Digitali. Edizione del Kindle, p.239) i veri precursori di Gioacchino furono i monaci basiliani calabresi, come S.Leoluca da Monteleone, Elia il giovane, Elia Speleota da Reggio, S.Nilo da Rossano, S. Bartolomeo da Simeri: “Tutti menano al pari di lui vita di stenti e di fatiche, e tormentano spietatamente il loro corpo per dare più libero volo al loro spirito. Tutti amano al pari di lui la solitudine, e si ritraggono negli alpestri silenzi di un eremo, ove a poco a poco per opera loro sorgerà un nuovo cenobio di regola più severa”. Lo studio dei libri sacri, le contemplazioni mistiche, il carisma profetico, sono caratteri che accomunano l’esperienza religiosa di Gioacchino a quella dei monaci basiliani, in una Calabria ancora in larga parte legata alla cultura greco-bizantina.

[5]I Sigilli (quasi dei segnalibro, che separano le varie parti del testo sacro e scandiscono le età e i tempi della storia) sono sette, come i giorni della creazione più il riposo, e corrispondono, secondo Gioacchino, ai sette momenti (‘opere’) dell’epifania del Figlio: Nascita, Battesimo, Passione, Resurrezione, Ascensione , Discesa dello Spirito Santo, Giudizio finale. Il numero ‘sette’ è applicato da Gioacchino anche alla tavola delle virtù o “doni dello Spirito Santo” (coraggio, saggezza, intelligenza, sapienza, conoscenza, pietà, timore), che, a loro volta corrispondono ai cinque sensi, da lui aumentati a sette, per esigenze di simmetria, con l’aggiunta del “camminare a piedi” e della sensibilità sessuale. Sette sono, infine, le Chiese d’Oriente e sette quelle di Occidente (cinque, con l’aggiunta di due per le solite esigenze di concordanza).Vedi: G.d.F., I sette sigilli, a cura di A. Gatto, Mimesis, Milano-Udine 2013.

[6]Sull’ermeneutica di Gioacchino, oggi esaltata dai fautori dell’ “interpretazione infinita”, è utile ricordare quanto scrisse il critico catanzarese Felice Tocco (allievo di F. Fiorentino e maestro di R. Mondolfo) sulle “interpretazioni forzate”, le “viziose classificazioni”, i “faticosi calcoli di date e generazioni” dell’abate calabrese, che gli appariva dotato della “costanza e della fede di un cabalista” e che “sping(eva) troppo oltre i diritti dell’interprete, e nessuna violenza risparmi(ava) alla lettera della Bibbia per salvarne lo spirito” Cosicché: “rimosso l’ostacolo dell’intelligenza letterale, l’interpretazione allegorica non ha più freno che la moderi” (L'eresia nel Medioevo, cit., p.230).

[7]Basati sulla ricorrenza dei numeri 5 , 7, 12 (7+5) come le tribù di Israele e i dodici apostoli.

[8]Secondo Gioacchino, l’Apocalisse contiene “la profezia delle profezie”, quella che, al di là della previsione di eventi futuri particolari “rende accessibili le cose nascoste, penetra in quelle segrete, scioglie i sigilli, illumina le oscurità”con riferimento al destino universale dell’uomo- Sgorgata dal cuore dell’Apostolo Giovanni, la “corrente del fiume celeste” ci rivela, così, la storia del mondo a partire dall’inizio dell’età del Figlio, riassunta in un unico libro , che completa i quattro Vangeli. L’Antico Testamento, invece, narrava, in una pluralità di libri, la storia dell’”età del Padre” dall’origine del mondo ad Esdra, completandola con le quattro storie particolari di Giobbe, Tobia, Giuditta ed Ester. In entrambi i casi: una storia principale e quattro storie particolari, che si dispiegano in una scansione settenaria di tempi che si corrispondono geometricamente ( G.d.F., Sull’Apocalisse, trad. . A. Tagliapietra, p.137, 139, Feltrinelli. Milano 2018.

[9]Sono i monaci della seconda età, che, come gli eremiti, evadono dal mondo o come i cenobiti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture e all’apprendimento del sapere. E’ significativo che questo monachesimo ‘inattivo’ e contemplativo, isolato dal mondo, di cui G. era parte,. viene fatto corrispondere alla Chiesa di Costantinopoli (Sull’Apocalisse, p.295)

[10]Sull’Apocalisse, cit., trad. A. Tagliapietra. P.315

[11]Enchiridion super Apocalypsim, in “G.d.F.: Sull’’Apocalisse”, cit.,, p.323

[12]Vedi: Dialoghi sulla prescienza divina e la predestinazione degli eletti, Viella, Roma 2001, p.33 ss.

[13]G.d.F.: Sull’Apocalisse, cit., p.303

[14]L’Ordine dei Frati Minori fu fondato da S. Francesco nel 1209 e approvato definitivamente nel 1223 da Onorio III

[15]Cfr. Introduzione a: G.d.F.: Sull’Apocalisse, cit., 3.Gioacchino filosofo: l’interpretazione della storia, p.40 ss.

[16]Ivi, p.41 [17] Cfe.: L'eresia nel Medioevo, cit., p.230 [18] Scoperto nel 1837 da Leone Tondelli. Ne esistono altre due versioni rinvenute a Oxford e a Dresda

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