Filosofi della Calabria

di Vittorio Emanuele Esposito


Nel clima di favorevole rivalutazione della tradizione filosofica italiana da parte del mondo europeo e statunitense è legittimo, superando i pregiudizi su presunti provincialismi e minorità, restituire la dovuta attenzione anche alla filosofia calabrese, che di quella tradizione, attraverso i suoi pensatori di maggiore spicco, costituisce parte integrante e di rilievo. Né si può dimenticare, se mai è accaduto di farlo, che la filosofia, cioè il pensiero che, per comprenderle e rintracciarne il senso, prende le distanze e si eleva in volo sulla realtà, sulla vita, sulla storia, ha avuto il suo atto di nascita in Calabria, nella Magna Graecia  (Megàle Hellàs) e nel Meridione d'Italia, dove, nel VI sec. a.C., sono sorte, quasi contemporaneamente, la “Scuola Italica” (= scuola pitagorica) e la “Scuola eleatica”[1], la cui luce intellettuale ha illuminato tutto il corso della storia della filosofia, fino ai giorni nostri e al cui interno sono stati costruiti i fondamenti concettuali del pensiero filosofico-scientifico e del pensiero comune.

Sembra che la stessa parola filo-sofia, stando ad una tradizione riportata da Diogene Laerzio, sia stata inventata da Pitagora, che definiva se stesso ‘filosofo’ per sottolineare che il sapere (sofìa) umano, a differenza di quello degli dei, è sempre incompiuto, si accresce attraverso successive scoperte e perciò va coltivato con passione e amore (filìa) per la verità.


[1] La Scuola eleatica (Parmenide, Zenone e Melisso di Samo) sorse ad Elea (Hyele- Velia per i latini, oggi Ascea in provincia di Salerno), colonia dei Focesi, ed ebbe con molta probabilità rapporti con quella di Pitagora. L’idea enunciata da Parmenide della realtà come Essere, che esclude il Nulla e che perciò non muta e non ha principio né fine, contrariamente all’opinione (doxa) e ai giudizi degli uomini, che affermano e negano, non soltanto fu il presupposto della teoria platonica delle idee e influenzò la filosofia medioevale e moderna, ma suggestiona ancora il pensiero del nostro tempo, tanto che è stato riproposto un “ritorno a Parmenide.

1. Pitagora-Πυϑαγόρας

(Samo [o Sidone o Tiro] 570 a. C. – Metaponto 495 d. C.)

Pitagora Samo

Tutto quello che sappiamo, e quanto comunemente si dice, intorno a Pitagora è stato tramandato da fonti posteriori a lui di alcuni o di molti secoli, che, per giunta. hanno attinto ad una letteratura fantasiosa formatasi dopo la sua morte, in cui Pitagora veniva descritto come un personaggio semi-divino dotato di poteri sovrannaturali o addirittura come il figlio di Apollo.

Il nome “Pitagora”, peraltro abbastanza diffuso a quei tempi[2], sotto questo aspetto, acquista un significato simbolico alludendo ad un rapporto diretto tra il filosofo di Samo e Apollo Pitio. Il suo significato può essere inteso, in senso passivo, come “colui la cui nascita fu annunciata dalla Pizia” (la sacerdotessa di Delfi)[3] o ,in senso attivo, come “colui che è venuto ad annunciare la sapienza di Apollo Pizio”[4]. Fatto sta che la leggenda sul filosofo di Samo come personalità mistica in contatto con il mondo dell’al di là, alimentata dallo stesso Pitagora con le sue dottrine segrete, i suoi precetti enigmatici di stile oracolare (“akousmata[5]) e i suoi atteggiamenti da taumaturgo, iniziato ai Misteri orientali e depositario della sapienza occulta degli Egizi, dei Fenici, dei Caldei e dei Magi[6], amplificata dai suoi discepoli e seguaci e arricchitasi nel tempo di nuovi eventi straordinari (“mirabilia”, miracoli[7]), costituisce una spessa cortina di fumo che rende difficile ravvisare, distinguere e far emergere la linea del suo pensiero.

Per fortuna abbiamo delle testimonianze dirette e indirette di autori coevi o vissuti a poca distanza di tempo, che ci consentono di diradare la nebbia dell’aneddotica di pura fantasia e ci restituiscono l’immagine di un filosofo iniziatore di un indirizzo di pensiero basato sull’osservazione della realtà piuttosto che su astratte speculazioni.

 Può sembrare strana questa affermazione riferita a chi, come Pitagora, ha fama di grande matematico, scopritore del teorema che porta il suo nome, fondatore di una scuola di matematici che durò oltre la sua morte, a cui appartennero Ippaso, Timeo, Filolao, Archita e molti altri. Ma la matematica, in origine, prima della sua completa idealizzazione, aveva poco di speculativo e molto di concreto, basandosi sulla ricerca dei rapporti spaziali tra le cose o tra i loro modelli semplificati e regolarizzati, quali sono le figure geometriche, e sul calcolo dei “punti-numero” come elementi minimi, finiti e discreti, di cui si compone la linea, secondo la concezione “granulare” della linea[8], che precedette la smaterializzazione del punto e la conseguente rappresentazione del continuum spazio-temporale.

In realtà il “teorema di Pitagora” era già conosciuto dai babilonesi ed ebbe la sua dimostrazione negli Elementi di Euclide, vissuto due secoli dopo di lui. Pitagora esultò per la sua personale scoperta; per aver ‘veduto’, cioè, la relazione tra il quadrato dell’ipotenusa e la somma dei quadrati dei cateti e averla misurata con lo strumento analogico del “numero-punto”. Così come manifestò il suo entusiasmo quando, ascoltando i suoni diversi che un fabbro produceva battendo il ferro, riconobbe gli intervalli di ottava di quinta e di quarta, e capì che tale diversità dipendeva dal differente peso del martello usato, scoprendo che questi suoni erano in rapporto numerico di 2/1, di 3/2, di 4/3, E non contento di tale scoperta volle poi verificarla con altri esperimenti, appendendo, ad esempio, pesi diversi a quattro corde, oppure percuotendo vasi riempiti di acqua in varie proporzioni. Per la verità quest’ultimo esperimento viene attribuito ad Ippaso, il quale però aveva la cattiva abitudine di appropriarsi delle scoperte fatte da “quell’uomo”, come i pitagorici, senza nominarlo, chiamavano il maestro.[9]

Due brevi considerazioni si impongono a questo punto.

La tesi “negazionista” o “riduzionista” (si è persino messa in dubbio l’esistenza di Pitagora come persona) prevale spesso tra gli storici della filosofia a causa della povertà e dell’incertezza delle notizie. Ci si appella ad Aristotele, che, esponendo e commentando le dottrine della scuola crotoniate, non parlò mai di Pitagora, ma riferì ai “cosiddetti pitagorici”, di prima e seconda generazione, la maggior parte dei contenuti e dei risultati teorici attribuibili all’insegnamento del maestro, raffigurato, per parte sua, come una specie di santone e di sciamano o tutt’al più come un autorevole educatore di stampo religioso (Walter Burkert). Ma senza il caposcuola questi discepoli ed epigoni non sarebbero mai stati riconosciuti come “pitagorici” e non solo per il loro “modo di vita”, ma proprio per le dottrine scientifico-filosofiche che professarono in assoluta concordia e convergenza, custodendole come una preziosa eredità.

In secondo luogo, Pitagora, come dimostrano le sue indagini nel campo della matematica, della musica, dell’astronomia e la sua precettistica in ordine alla cura del corpo e dell’anima, ricercava nel particolare il generale, nel molteplice l’unità, mirando a definire la struttura del reale e a rintracciarne i principi : segno questo non trascurabile della sua indole e vocazione di filosofo, che non si accontenta delle credenze religiose - anche se le rispetta - né di raziocini privi del sostegno dell’esperienza diretta dei fatti e dell’analisi necessaria per rappresentarli e pensarli in modo congruente. La filosofia, infatti, almeno nei casi migliori, non costruisce nel vuoto, non trae da sé i suoi fili come il ragno, ma deriva le proprie idee dall’osservazione, esperimenta e verifica, proprio come fanno le scienze, con le quali, dunque, non c’è contrasto, perché i mezzi e il metodo della conoscenza sono gli stessi e diversi sono soltanto gli oggetti (anche quando sembrano i medesimi) e gli scopi della ricerca.

In questo senso Pitagora diede inizio ad una tradizione di pensiero, a cui i filosofi calabresi – da Telesio a Campanella a Galluppi a Vincenzo De Grazia con la sua “filosofia dell’osservazione” rimasero fedeli e che antepone la concretezza all’astrazione; la ‘logica’ delle cose, alla logica delle parole; la verità che risulta dalla conoscenza diretta a quella che deriva dal raziocinio; l’analisi dei fatti all’analisi dei concetti e alle sintesi ipotetiche o aprioristiche.

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Eraclito, che era di Efeso, nella Ionia, ed era più giovane di poco più di una generazione, accusò Pitagora di essersi occupato di troppe cose e per questo di essere rimasto alla superficie., senza andare a fondo., conseguendo un sapere falso e ingannevole. “La molta dottrina [polimathìa]- egli sentenziò- non insegna ad avere intelligenza”, altrimenti lo avrebbe insegnato a Pitagora (così come ad Esiodo, a Senofane e ad Ecateo)[10]. Un giudizio drastico che egli pronunciava In nome del Logos, del Discorso Vero, che gli uomini non ascoltano e disconoscono, non riuscendo a vedere l’unità al di là delle differenze, cosicché i loro discorsi sono fatti di affermazioni e negazioni, senza accorgersi che ciò che negano è lo stesso di ciò che affermano[11].

Ma Pitagora, da filosofo, ricercava, appunto, l’unità delle differenze, il fondamento e il rapporto tra le diversità, esplorando i vari campi della realtà naturale, sociale e umana per scoprire la struttura comune delle “cose che sono” Considerava le differenze come reali, vere; non come predicati opinabili o trascendibili, ma come note diverse che si compongono nell’armonia del cosmo, in un mondo ordinato, le cui parti, diverse, contrarie, opposte tra loro, concorrono. all’unità del tutto e voleva carpire il segreto di questa armonia, di quest’ordine, di questa unità.

La sua ricerca, come si evince da un altro frammento di Eraclito[12], non si basava, come avverrà con Platone, sulla rassegna e l’analisi di idee discese nella mente degli uomini dall’alto, da un mondo Iperuranio, allo scopo di esplicitare i loro rapporti e la dipendenza gerarchica dell’una dall’altra, ma sull’osservazione empirica (historìa) dei rapporti tra le cose (pragmata), gli stati di cose, i fatti, i dati, perché è solo dalla loro conoscenza che derivano i nostri concetti e le nostre idee e dipendono i ragionamenti, non solo formalmente validi, ma plausibilmente veri, e le induzioni o le inferenze legittime.

Per questa via terrestre, esperienziale, Pitagora giunse all’asserto (filosofico) che “il numero è il principio di tutte le cose” motivato dalla constatazione che tutto ciò che esiste, viene al mondo, fa parte del mondo – anche le idee e le immagini mentali, anche i nostri pensieri, desideri e sentimenti- è determinato, limitato, finito e, come tale, è numerabile, ha un numero, è riducibile a numero e può anche dirsi che è numero-[13] La verità di questa formula pitagorica riluce con chiarezza nell’era che viviamo, nell’era digitale, che così si definisce, appunto, da ‘digit’ , il termine inglese corrispondente a ‘numero’. La più nitida e vivida immagine, ad esempio, ingrandita n volte, si rivela formata da una quantità di unità minime o pixel, individuabili attraverso coordinate numeriche e modificabili, nei contorni e nei colori, agendo sui valori numerici delle relative scale grafiche e cromatiche.

Pitagora giunse perciò alla scoperta di ciò che è la condizione stessa dell’ esistere, del venire ed essere al mondo (o dell’ essere stato, perché ciò che una volta è comparso al mondo, ha fatto il suo ingresso, anche se per brevi istanti, nella dimensione dell’esistenza, ne fa parte per sempre, nonostante le sue tracce e la sua memoria possano essere irrimediabilmente perdute). Esistere, significa esser finito, avere una propria determinazione, prima di tutto, quantitativa, nella estensione lineare dello spazio e nella durata del tempo.

Il numero, che, prima di diventare un concetto astratto, nella “matematica approssimativa” dei tempi di Pitagora veniva identificato con la più piccola singolarità esistente - il calculus (psefos), il sassolino come strumento per misurare -con la sovrapposizione- le grandezze- è l’elemento di cui si compongono il mondo reale e tutte le molteplici cose che ne fanno parte. Il numero è moltiplicabile e divisibile, ma con un termine massimo o minimo (di estensione e di durata) che separa l’esistente, sempre determinato e delimitato (peperasménos), dal non esistente, cioè. dall’indeterminabile nulla (àpeiron).

L’infinito è l’inesistente, il nulla, privo di dimensioni, di estensione di durata. Esso ‘circonda’ l’universo solo perché questo, come ogni cosa, ha un limite sempre espandibile o contraibile e si insinua, perciò, tra le cose, delimitandole, individuandole e separandole l’una dall’altra. Da qui la teoria pitagorica dell’“inspirazione”: ogni volta che nasce un ente o accade un evento é come se venisse inalato e assorbito un tratto di infinito, che avvolge e definisce la singolarità discontinua delle cose. Le cose emergono dal nulla, si muovono nel nulla (come le particelle quantiche) e lo accolgono in sé. Ma l’infinito, considerato in se stesso è il niente assoluto, perché non ha numero, perché non c’è numero, per quanto grande o piccolo, che possa adeguarlo, comprenderlo, compierlo. L’infinito, il perennemente altro, rivela il suo volto, o la sua ombra sfuggente e irraggiungibile, solo in quanto il numero, il singolo ente, ne ritaglia una porzione, un tratto, catturandolo, portandolo all’esistenza come elemento del mondo e facendolo esistere nelle forme reali dello spazio relativo (illimitato, ma finito e misurabile), come distanza tra le cose o campo di azione delle grandezze, e del tempo relativo (illimitato. ma finito e misurabile), come durata e intervallo nel moto o come durata e pausa tra i suoni[14].

Se poi astraiamo il numero dalle entità reali a cui è intrinseco e lo consideriamo in sé i due elementi che configurano il mondo percepito, cioè il limitato e l’illimitato, assumono la forma, rispettivamente del dispari e del pari. Nella serie numerica dei pitagorici non c’è lo zero, perché lo zero è l’inattingibile niente. L’uno (parimpari) è l’origine e l’elemento costitutivo di tutti gli altri numeri, li contiene in sé e non è preceduto da niente. Il pari ha un vuoto tra le unità o i gruppi di unità che si corrispondono, mentre nel dispari questo vuoto viene occupato e trova il suo limite nell’unità che vi si aggiunge.

Limite e illimitato, pari e dispari, sono le prime due coppie di contrari che compaiono in una lista di dieci. Le altre sono:

  • Uno-Molteplice
  • Destro-Sinistro
  • Maschio-Femmina
  • In quiete-Mobile
  • Dritto-Curvo
  • Luce-Buio
  • Bene-Male
  • Quadrato-Rettangolo

Questa concezione dualistica del mondo, a cui non è estranea l’influenza delle dottrine religiose iraniche fatte risalire al profeta Zarathustra, consentiva a Pitagora e ai pitagorici di spiegare il cambiamento, che prevede momenti di tensione e di conflitto come necessari all’armonia delle parti e del tutto. Non c’è armonia senza tensione e la tensione si genera, come nella musica, dalla contrapposizione di elementi dissonanti. Le cose simili e omogenee affermava Filolao[15]- non hanno, infatti, bisogno di armonia. Solo dai dissimili, da elementi contrari o opposti, a partire dall’opposizione fondamentale di limitato/limitante e illimitato scaturisce l’armonia del mondo, che è il fine a cui deve tendere l’anima e che deve essere perseguito attraverso il freno degli istinti irrazionali (illimitati), la loro abituale moderazione, le ricorrenti pratiche di purificazione.

L’anima è predisposta all’armonia, ne possiede il senso innato e, salvo deviazioni, tende a realizzarla per concorrere all’armonia universale e per assicurarsi un destino individuale migliore. Abbiamo diverse testimonianze della fede di Pitagora nell’immortalità dell’anima e nella sua trasmigrazione dopo la morte nel corpo di altri uomini o di animali.

Secondo Erodoto[16] questa credenza risaliva agli Egizi e se Pitagora era davvero nel novero di quei greci, che, a suo dire, l’avevano fatta propria, bisognerebbe pensare che anche lui fosse convinto che, dopo un ciclo di reincarnazioni di tremila anni, sarebbe tornato nel suo proprio corpo. Pitagora era noto per la sua grande memoria. Ricordava tutto e, come riferisce Eraclide Pontico, [17] diceva di essere stato nelle precedenti vite Etalide figlio di Hermes; poi, il famoso guerriero Euforbo; poi Ermotimo, tanto che riconobbe lo scudo che Menelao aveva regalato a quest’ultimo; poi, Pirro, il pescatore di Delio, divenendo infine Pitagora. È chiaro che questa narrazione, sia essa da attribuire a Pitagora ovvero ai suoi fantasiosi biografi, fa parte del mito e della leggenda e nulla ha a che fare con la filosofia. Credenze di questo tipo implicano l’impossibile coesistenza di due anime, quella dell’individuo che si incarna nel corpo di un altro e quella del possessore del corpo in cui il primo si è trasferito ed ha soggiornato. Viceversa l’immortalità sarebbe di un’anima non individuata, che di volta in volta assume la forma provvisoria di individui mortali che succedono gli uni agli altri senza essere l’anima di nessuno di loro in particolare. Tuttavia la credenza pitagorica nella metempsicosi ha un valore culturale di notevole importanza come invito a coltivare la memoria. Studiare le grandi personalità del passato è, in fondo, appropriarsi del loro pensiero e della loro esperienza e richiamarle in vita; come se loro vivessero in noi o noi in loro.

C’è un ultimo punto da tener presente. Non è possibile stabilire se Pitagora in persona fece un’altra sorprendente (“mirabile”) scoperta, o se essa maturò, come è più probabile, nell’ambiente del pitagorismo a lui posteriore (Ippaso): quella, cioè, dell’incommensurabilità tra il lato e la diagonale di un quadrato. Si trattò di una vera rivoluzione nel campo della matematica, presupposto del passaggio dal punto geometrico esteso (un granellino per quanto piccolo, ma finito) al punto geometrico ideale, privo di dimensioni.[18] Lato e diagonale del quadrato non sono, infatti, sovrapponibili con esattezza, non sono costituiti dallo stesso numero di punti materiali e non hanno sottomultipli comuni. Non esiste, cioè, un frammento per quanto piccolo della linea del lato che sia contenuto, un numero intero di volte, nella linea della diagonale. Non c’è, dunque, una misura comune. La diagonale, di fatto, è uguale al lato moltiplicato per la radice quadrata di due (d= √2 x l ). Ma √2 è un numero irrazionale, indefinito e indefinibile, definibile solo approssimativamente, ‘àlogos’,.indicibile”. La soluzione del problema non era possibile sul piano fisico per i limiti di divisibilità del punto materiale che si arresta di fronte all’indivisibile, all’ “atomo”[19](= ciò che non si riesce a dividere ulteriormente). Questa difficoltà spinse i matematici a concepire il punto, la linea, il piano e i numeri come enti puramente ideali e come tali divisibili all’infinito e consentì di dare al problema dell’incommensurabilità soluzioni, sempre approssimative, ma sempre meno imprecise, praticabili attraverso algoritmi computazionali che restituiscono numeri a miliardi di cifre dopo la virgola.

L’idealizzazione della matematica - dell’ aritmo-geometria pitagorica- ha rappresentato un grandissimo progresso per il calcolo delle grandezze macro e microscopiche e per la stessa nostra concezione del mondo, consentendoci un salutare distanziamento dalle immediate apparenze sensibili. Ma ha anche alimentato nei filosofi la presunzione di una totale autonomia del pensiero rispetto alla realtà del mondo cui apparteniamo, quasi che il pensiero sia di per se stesso produttore di verità, inducendo così a dimenticare che tutte le nostre idee hanno origine dalla osservazione della realtà e che la verità è tale soltanto.se trova un aggancio e un riscontro nell’unico mondo reale, quello in cui si svolge la nostra vita ed è e resta il termine di confronto obbligato di ogni mondo possibile e di ogni costruzione speculativa.

Pitagora ci ha lasciato l’esempio di una filosofia fondata sull’analisi dei contenuti della conoscenza e non sulle forme logiche o sul linguaggio, cioè sull’insieme dei simboli in cui l’uomo racchiude e riassume l’esperienza, la cui pertinenza, corrispondenza e congruenza e la cui genesi storica vanno continuamente indagate e rivedute. Ha preparato così un solco lungo il quale i filosofi calabresi, stimolati e agevolati dal mito della Magna Grecia, che con il pitagorismo si è identificato traversando i secoli, hanno continuato a camminare.

tavolette babilonesi

pari dispari

 


[2] Diogene Laerzio fornisce un elenco di 10 personaggi noti all’epoca dal nome Pitagora (un politico, un atleta, un medico, un pugile, uno storico…) Tra questi ricorda Pitagora di Reggio, anch’egli nativo di Samo e trasferitosi a Reggio a metà del V secolo, dove divenne discepolo di Clearco e si specializzò nella fattura di statue bronzee, divenendo abilissimo nel riprodurre tendini, vene e capigliature, tanto che non è azzardata l’ipotesi che sia lui l’autore dei Bronzi di Riace.

[3] Giamblico (La vita pitagorica, 5-7) riferisce il racconto mitico secondo cui i genitori di P. -Mnemarco (altrove: Mnesarco) e Partenide, discendenti da Anceo, il fondatore di Samo- si sarebbero rivolti all’oracolo di Delfi per sapere di un viaggio commerciale che intendevano fare in Siria. La Pizia diede il responso che il viaggio sarebbe stato molto favorevole, ma al tempo stesso annunciò che Partenide, senza saperlo, era incinta e avrebbe partorito un figlio più bello e più sapiente di ogni altro. Cosa che avvenne a Sidone, in Fenicia (qui e non a Samo, dunque, sarebbe nato Pitagora). Mnemarco allora cambiò il nome della moglie in Pitaide e diede al neonato il nome che testimoniava l’annuncio divino del suo avvento.

[4] Secondo Aristosseno (citato da Diogene Laerzio (VIII,8) Pitagora apprese gran parte delle sue dottrine da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi

[5] Gli “akousmata”, noti anche come “simboli pitagorici” erano delle istruzioni o prescrizioni orali spesso espresse con delle metafore,  che ne rendevano  non semplice e immediata l’interpretazione (“non attizzare il fuoco con il coltello”, “non far tracollare la bilancia”. “, “tieni le coperte sempre legate insieme”, “non mangiare il cuore”ecc.).

[6] Secondo Porfirio Pitagora avrebbe appreso la geometria dagli Egizi, l’aritmetica dai Fenici, l’astronomia dai Caldei e i riti divini dai Magi

[7] E’ sorprendente che proprio Aristotele, la fonte più autorevole per ricostruire il pensiero filosofico dei pitagorici, abbia accolto e riferito la tradizione sui ‘miracoli’ di Pitagora:_ la premonizione che su una nave in arrivo vi fosse un morto, l’addomesticamento dell’orsa bianca, la sua ubiquità (fu visto simultaneamente a Crotone e a Metaponto), l’uccisione con un morso di un serpente velenoso, Il trasferimento invisibile a Metaponto dopo aver previsto la sedizione contro i pitagorici, il saluto rivoltogli ad alta voce da un fiume, l’esibizione in un teatro della sua coscia d’oro.

[8] Vedi A. Frajese, Gli inizi della matematica di precisione nella Magna Grecia, in Atti del V Convegno di studi sulla

Magna Grecia (Taranto, ottobre 1965), Napoli 1966

[9] Vedi: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Gabriele Giannantoni, Bari 1969, pag.137 e 140 (IAMBL, v Pyth. 88; THEO SMYRN, pag 59,4)

[10] Vedi: I presocratici,cit.,  pag.148 (fr.22 B 40)

[11] La salita è la stessa cosa che la discesa; il movimento lineare e curvo (rotatorio)della vite sono uno stesso movimento; il fiume è lo stesso anche se non ci si può bagnare due volte in esso, perché le sue acque scorrono e si rinnovano, l’arco, strumento di morte, ha lo stesso nome della vita (bios)

[12] Diogene Laerzio, VIII 6

[13] Filolao: “Tutte le cose che si conoscono hanno numero, senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché” (STOB, ecl., I 21, 7 b). Vedi: I presocratici, pag.466

[14] Il pitagorico Archita, signore di Taranto, vissuto un secolo e mezzo dopo Pitagora, si chiedeva se posizionandosi sul limite estremo del mondo fosse possibile alzare un braccio. Era certo possibile, perché così facendo si sarebbe semplicemente spostato il confine del mondo e ampliato il limite dello spazio reale.

[15] I presocratici, pag.467 (STOB, ecl, I 21,7d).

[16] Erodoto, Storie, II 123

[17] Diog,Laert,, VIII 5

[18] Vedi: A Frajese, Gli inizi della matematica di precisione nella Magna Grecia.

[19] Non a caso Diogene Laerzio pose Pitagora a capo di una tradizione di pensiero che arriva agli “atomisti”. Leucippo, Democrito ed Epicuro, distinguendola da quella di origine ionica che da Anassimandro si estende fino a comprendere Platone, Aristotele e gli Stoici.

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